domenica 7 aprile 2013

come mi innamorai di Alekos e Oriana imparando ad amare "Un Uomo"

[...] Paradossalmente non ero innamorata di te. Non lo ero mai stata, nemmeno durante i sette giorni di felicità o nel periodo della casa nel bosco, perlomeno nel senso che di solito si dà a questo termine. Parlo del desiderio fisico che annebbia la vista e interrompe il respiro al solo guardare la creatura amata, del brivido che ti intirizzisce e ti scioglie al solo sfiorarle una mano, una guancia, sicchè tutto in lei diventa unico e insostituibile, perfino l’odore del suo fiato, il sudore della sua pelle, i suoi stessi difetti che anziché difetti ti sembrano qualità deliziose: hai bisogno di lei come dell’aria, dell’acqua, del cibo, e in tale schiavitù muori di mille morti ma sempre per resuscitare, esserle schiavo di nuovo. Questi sintomi io li conoscevo, ma in coscienza non potevo dirmi d’averli avvertiti in nessun momento per te. As esempio, il tuo corpo non mi attraeva, non capivo le donne che lo giudicavano bello e se ne invaghivano perdutamente tradendo il marito, umiliandosi pur d’essere scaraventate cinque minuti contro un muro o su un letto, poter raccontare agli altri o a sé stesse d’averti toccato; fin dal primo istante ti avevo giudicato bruttino e continuavo a giudicarti tale. Quegli occhietti piccoli, diversi tra loro nel taglio e nella collocazione, uno più alto e uno più basso, uno più chiuso e uno più aperto, quel naso spampanato, disossato, quel mento breve e dispettoso, quelle guancie che si riempivano appena ingrassavi un po’. Quei capelli grossi e untuosi che non pettinavi mai, quel corpo tarchiato, spalle troppo tonde, braccia troppo corte, mani troppo tozze, dale unghie strappate anziché tagliate. Avevi imparato a strapparle in prigione dove non avevi le forbici, e continuavi a strapparle malgrado le mie proteste d’orrore. E poi quante cose mi irritavano di te! Il tuo modo di mangiare, per dirne una: così maleducato, ingordo. Ficcavi in bocca certi bocconi che nemmeno un cavallo sarebbe riuscito a ingoiarli. Il tuo modo di fare il bagno, per dirne un’altra. Fare il bagno per te significava coccolarti nell’acqua come un’anatra, sonnecchiarci ore e ore senza usare il sapone, uscirne di colpo per infilarti bagnato nel letto, infradiciarmi tutta, strillare contento ho-freddo, ho-freddo! E il tuo vitalismo esagerato, la tua sessualità golosa, ringhiosa, che quando aggrediva coi suoi slanci felini sollevava in me un impulso alla fuga; bisognava controllarsi, mentire, perché tu non capissi che la partecipazione era un atto cerebrale , sostenuto da una tenerezza misteriosa, lacerante e struggente, un trasporto che nasceva da non so cosa ma non certo dai sensi. Non ero venuta a te succhiata da un richiamo dei sensi. Ricordavo bene l’angoscia che avevo provato a udirti camminare su e giù dinanzi al vetro smerigliato della porta, in dubbio se entrare o no, ricordavo bene il gelo che mi aveva intirizzito a intravedere le tue dita sulla maniglia, e il sollievo che mi aveva alleggerito quando le dita si erano ritratte. Possibile che fosse dovuto solo al presentimento di una tragedia a venire? Ricordavo altrettanto bene l’inquietudine che mi bucava a sera i cui ero tornata per trovarti in ospedale, il segreto sgomento all’idea che toccasse a me riempire un vuoto di cinque anni, subire una voracità a lungo inappagata. No, neanche sull’incanto della prima notte i sensi avevano avuto un’influenza, sarebbe stato disonesto dire che la tua passione aveva suscitato la mia, e anche dopo era stato così: negli abbracci forsennati o dolcissimi non era il tuo corpo che cercavo bensì la tua anima, i tuoi pensieri, i tuoi sentimenti, i tuoi sogni, le tue poesie. E forse è vero che quasi mai un amore ha per oggetto un corpo, spesso si sceglie o si accetta una persona per la malìa inesplicabile con la quale essa ci investe, o per ciò che essa rappresenta ai nostri occhi, alle nostra convinzioni, alla nostra morale; però il veicolo di un rapporto amoroso rimane il corpo e, se quello non ci seduce, qualcos’altro deve pur sedurti. Il carattere, ad esempio, il modo di vivere o di comportarsi. E col tempo avevo scoperto che neanche il tuo carattere mi piaceva molto: con le sue smoderatezze, le sue ferocie, le sue sfuriate cattive e senza senso, le sue ebrezze del primo stadio, secondo stadio, terzo stadio, le sue durezze  di roccia, le sue chiusure da ostrica. Più tentavo di aprire l’ostrica per estrarne la perla più essa mi resisteva colando un liquido nero, più scavavo la roccia in cerca di rubini e smeraldi più trovavo sassi e carbone. Il tuo bosco era pieno di sterpi, di spine, appena vi coglievo un fiore mi graffiavo, mi insanguinavo. E l’arroganza grazie a cui pareva che tutto ti fosse permesso, la faciloneria con la quale liquidavi situazioni e problemi, le contraddizioni in cui precipitavi. Tutte tare per me deplorevoli. Ma allora perché avevo avuto quell’impulso di correrti dietro, abbracciarti, sentire i tuoi baffi contro la mia guancia, perché ora sentivo il bisogno di raschiarmi la gola per ricacciare indietro le lacrime?
Eppure non ero gelosa di te, non lo ero mai stata. Nemmeno all’inizio quando m’ero accorta che accendere desideri solleticava la tua vanità, nemmeno in seguito quando i tuoi riti dionisiaci erano esplosi. Parlo della gelosia che svuota le vene all’idea che l’essere amato penetri un corpo altrui, la gelosia che piega le gambe, toglie il sonno, distrugge il fegato, arrovella i pensieri, la gelosia che avvelena l’intelligenza con interrogativi, sospetti, paure e mortifica la dignità con indagini, lamenti, tranelli facendoti sentire derubato, ridicolo, trasformandoti in poliziotto inquisitore, carceriere dell’essere amato. Forse per cerebralismo,coerenza al principio che i rapporti d’amore debbano essere reinventati e anzitutto scrostati dalle scorie, dei fardelli che a lungo andare li rendono soffocanti, mero sempre proibita di provare simili sofferenze per te. Saperti desiderato anzi mi lusingava, vederti aperto alle tentazioni mi divertiva, a volte le sue cose aizzavano addirittura il gusto di disputarti a un’ingordigia che io stessa nutrivo essendoti compagna. Solo negli ultimi tempi i tuoi eccessi mi avevano addolorato, e non per il fatto di sapermi sostituita un’ora o una notte bensì per il torto che facevi a te stesso esponendoti a pettegolezzi, accettando i costumi di una società che volevi cambiare, adeguandoti alle sozzure di una sottocultura dove il culto del fallo umilia l’intelligenza. Tuttavia neanche allora avevo ceduto all’indignazione che ammutolisce e spinge a chiuderci la porta alle spalle dopo aver lasciato le chiavi sul letto.
Forse non ero innamorata di te, o non volevo esserlo, forse non ero gelosa di te, o non volevo esserlo, forse m'ero detta un mucchio di verità e di menzogne, ma una cosa era certa: ti amavo come non avevo mai amato una creatura al mondo, come non avrei mai amato nessuno.
Una volta avevo scritto che l'amore non esiste, e se esiste è un imbroglio: che significa amare? Significava ciò che ora provavo a immaginarti impietrito, perdio, con lo sguardo di un cane preso a calci perché ha fatto pipì sul tappeto, perdio! Ti amavo, perdio. Ti amavo al punto da non sopportare l'idea di ferirti pur essendo ferita, di tradirti pur essendo tradita, e amandoti amavo i tuoi difetti, le tue colpe, i tuoi errori, le tue bugie, le tue bruttezze, le tue miserie, le tue volgarità, le tue contraddizioni, il tuo corpo con le sue spalle troppo tonde, le sue braccia troppo corte, le sue mani troppo tozze, le sue unghie strappate. E certo l'amore non ha per oggetto un corpo, però anche se eravamo separati da un oceano quel corpo io lo portavo a letto con me, nel ricordo lo abbracciavo come quando abitavamo la casa nel bosco, d'inverno, e la notte faceva freddo e ci scaldavamo così, la mia testa contro la tua testa, il mio ventre contro il tuo ventre, le gambe annodate, oppure quando stavamo distesi nella camera di via Kolokotroni l'estate, i pomeriggi erano afosi e ci scostavamo ridendo, via-roba-calda, ma c'era sempre un momento in cui i tuoi occhietti strani, uno più alto e uno più basso, uno più chiuso e uno più aperto, mi ubriacavano di dolcezza, sicchè mi chinavo a baciare le tue palpebre gonfie, mandorle di carne, accarezzare con la punta dell'indice il tuo naso buffo, i tuoi baffi spinosi, le tue labbra increspate da tante rughine, labbra di vecchio dicevi, e strisciandoti il dito sul mento poi sulla mascella poi sullo zigomo risalivo lentissimamente agli orecchi, perfetti questi, ben disegnati, e tu subivi felice che ti ammirassi almeno gli orecchi: "Che orecchi! Che orecchi!"
E forse il tuo carattere non mi piaceva, né il tuo modo di comportarti, però ti amavo di un amore più forte del desiderio, più cieco della gelosia: a tal punto implacabile, a tal punto inguaribile, che ormai non potevo più concepire la vita senza di te. Ne facevi parte quanto il mio respiro, le mie mani, il mio cervello, e rinunciare a te era rinunciare a me stessa, ai miei sogni che erano i tuoi sogni, alle tue illusioni che erano le mie illusioni, alle tue speranze che erano le mie speranze, alla vita!
E l'amore esisteva, non era un imbroglio, era piuttosto una malattia, e di tale malattia potevo elencare tutti i segni, i fenomeni. Se parlavo di te con gente che non ti conosceva o alla quale non interessavi, mi affannavo a spiegare quanto tu fossi straordinario e geniale e grande; se passavo dinanzi a un negozio di cravatte e camice mi fermavo d'istinto a cercare la cravatta che si sarebbe piaciuta, la camicia che sarebbe andata d'accordo con una certa giacca; se mangiavo in un ristorante sceglievo senza accorgermene i piatti che tu preferivi e non che preferivo io; se leggevo il giornale notavo sempre la notizia che a te avrebbe interessato di più, la ritagliavo e te la spedivo; se mi svegliavi nel cuor della notte con un desiderio o con una telefonata, mi fingevo più desta di un fringuello che canta al mattino.[...]
Ma un amore simile non era neanche una malattia, era un cancro! Un cancro. Come un cancro che a poco a poco invade gli organi col suo moltiplicarsi di cellule, il suo plasma vischioso di male, e più cresce più divieni cosciente del fatto che nessuna medicina può arrestarlo, nessun intervento chirurgico può asportarlo, forse sarebbe stato possibile quand'era un granellino di sabbia, un chicco di riso, una voce che grida egò s'agapò, un amplesso mentre il vento fruscia tra i rami d'olivo, ora invece non è possibile perchè ti ruba ogni tuo organo, ogni tessuto, ti divora al punto che non sei più te stessa ma un impasto fuso con lui, un unico magma che può disfarsi solo con la morte, la sua morte che sarebbe anche la tua morte, così tu mi avevi invaso e mi stavi divorando, ammazzando.
V'è una caratteristica lugubre negli ammalati di cancro: appena capiscono che esso ha vinto o sta per vincere, cessano di opporgli i farmaci, il bisturi, la volontà e si lasciano uccidere con sottomissione, senza maledirlo, neanche rimproverarlo del martirio che esige. Il-mio-male, lo chiamano con affettuosa indulgenza, quasi fosse un amico, un padrone, o un possesso di cui non possono fare a meno, e quel "mio" risuona a volte con accento soave: lo stesso che gorgogliava nella mia voce appena pronunciavo il tuo nome.
Ecco, a tale stadio ero giunta per non averti estirpato quando eri un granellino di sabbia, un chicco di riso, e sebbene l'istinto m'avesse avvertito che chiunque entrasse nella tua sfera perdeva la pace per sempre.
Eppure di occasioni per sfuggirti ne avevo avute [...] ma le avevo sempre respinte e così il cancro aveva proseguito il suo corso per dimostrarmi che amare significa soffrire, che l'unico modo per non soffrire è non amare, che nei casi in cui non puoi fare a meno di amare sei destinato a soccombere. In altre parole il mio problema era insolubile, la mia sopravvivenza impossibile, e la fuga non serviva a nulla.
A nulla? Alzai la testa. A qualcosa serviva: salvare la mia dignità. [...] Tanto rompere il cuore di una donna, squarciare il ventre di un’altra sono inezie di fronte alla Storia e alla Rivoluzione, no? Basta. Si ha un bel dire che la serenità addormenta, che la felicità rimbecillisce, che il soffrire invece sveglia e dà idee. Il soffrire paralizza, spenge l’intelligenza, uccide. E con te avevo sofferto veramente troppo. Salvo piccole oasi di gioia, brevi grandinate di allegria, la nostra unione era stata u fiume di angosce, pericoli, follie, nevropatie: stare con te era come stare in prima linea. Era un continuo piovere di razzi, granate, napalm, un perenne scavare trincee, andare in pattuglia su sentieri minati, lanciare attacchi, ferire e venir feriti, urlare, singhiozzare, chiama il barelliere, dammi il caricatore, comandante non ce la faccio più. Non si può stare al fronte in eterno, vivere in eterno sul dramma. Si finisce col perdere il senso della misura. [...] Capitava sì che l’immagine di te mi aggredisse ogni tanto, sollecitata da un nome o da un suono o da un cibo, addirittura da un’insegna al neon [...] ma a respingerla bastava il ricordo di quei due pugni nel polmone. Scottavano ancora, quanto bruciature di sigaretta. Capitava perfino che la vista dell’anello scambiato a Natale, ora tolto dall’anulare sinistro e riposto in un cassetto, provocasse un groppo alla gola; ma a raschiarlo via bastava un po’ di ragionamento; in un deserto dove ogni pianta è un miraggio, ogni filo di vento un’illusione, il deserto delle utopie, noi ci eravamo incontrati scordando di chiederci chi fossimo e dove volessimo andare; cani senza medaglia, ci eravamo presi per mano, e inciampando nelle dune di sabbia, cadendo, rialzandoci, inciampando di nuovo, ci eravamo fatti compagnia, legati dall’equivoco guinzaglio dell’amore. Ma ora il guinzaglio era rotto e guai a riannodarlo coi groppi alla gola; guai ad incrinare il mio equilibrio, il mio distacco. [...]

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