mercoledì 26 gennaio 2011

il giorno della memoria...quello della mia memoria


Era una notte buia e tempestosa…e proprio quella notte non sapevo ancora cosa mi sarebbe successo.

Scherzi a parte: mercoledì 26 gennaio 2005, passo l’intera mattina a preparare, con largo anticipo, le frittelle di carnevale con mia madre…che buone, mi sembra ancora di sentire il profumo… non so perché ma decido di mangiarle dopo pranzo. Il dopo pranzo arriva e alle 14.30 sarebbe venuto Fabio, un mio amico che da poco si era preso l’appalto di portarmi al lavoro. Non godo più, per una mia libera scelta, di una macchina, e il mio nuovo posto di lavoro è lontano da casa mia. Per di più: NEVICA , quindi per noi, per nulla avvezzi a questo tipo di calamità naturale, la situazione stradale è davvero ingestibile. Ne godono solo i carrozzieri.

Facciamo un attimo un passo indietro giusto un passo per spiegarvi la mia già allora precaria situazione lavorativa: ero stata “dispensata” dopo tre lunghi anni, da quello che era stato il mio lavoro in una scuola privata e avevo trovato un lavoro come “assistente personale” di un capo area regionale settore bancario e finanziario. Anche a distanza di tempo, sforzandomi, a tutt’oggi non riesco ancora a capire quale fosse il mio ruolo ma soprattutto che razza di lavoro fosse.

Torniamo a noi. Sono nella mia stanza, sono le 14.30 e tra poco arriva Fabio. Squilla il telefono… ”si sono ZiaManu, si ho mandato io la richiesta di partecipare al corso a Milano”, “ah, quindi IO dopodomani dovrei presentarmi a Monza?, ma mi scusi è impossibile, qui nevica” come se avessi annunciato la fine del mondo, a una milanese poi….

Tempo prima, stanca di aver firmato un contratto a tempo indeterminato col mio precariato, avendo riavvolto la pergamena della laurea conservandola nell’ultimo cassetto della scrivania, avevo pensato di ricominciare da capo, o meglio, di iniziare da un lavoro che non richiedesse la laurea. Infatti avevo mandato la richiesta per prendere parte a un corso professionale, ambito sanitario, che però assicurava un lavoro, e che richiedeva come titolo di studio la licenza media.

Insomma per farla breve io entro venerdì (ricordo che siamo già a mercoledì) dovrei essere a Milano e nel frattempo dovrei: trovare un biglietto aereo, preparare la valigia, prenotare un albergo, e rendermi conto di essere partita e di aver dato una svolta alla mia vita. Ma è davvero ciò che voglio?
Esco dalla mia stanza per dare la funebre notizia ai miei genitori. Perchè funebre?: da una vita speravo di evadere, andare via, vivere da sola ma tutto ciò è facile da dire quando non lo fai, quando non ti si presenta il pretesto per farlo, quando il non pretesto viene usato come un alibi per nascondere il coraggio che non hai, e soprattutto quando non hai altro da fare se non prendere la palla al balzo. Parlo con i miei genitori ai quali tristemente dico: “o parto adesso, o rimango qui per sempre ma, nella seconda ipotesi, nella mia vita non potrò più lamentarmi di nulla”.
Devo comunque andare al lavoro e almeno stavolta sarò io a dire: “non vengo più”…sono queste le soddisfazioni della vita, gli farò risparmiare quei quattro soldi che mi da.
Salgo sulla macchina di Fabio e l’unica cosa che riesco a fare è piangere. Non so come mai ma non riesco a smettere. Arrivo in ufficio e inizio a navigare nel web in cerca di orari ferroviari, alberghi, pensioni, qualcosa che possa ridarmi il lume della ragione. Mi consola solo che un paio di secoli fa Lucia non ebbe problemi a trovare chi la ospitasse a Monza. Arriva il capo, stronzo come pochi anche a detta sua, appena mi vede mi dice come mai fossi al lavoro con la neve. Non mi alzo per picchiarlo solo perché ho altro per la testa, gli è andata pure bene. Gli racconto l’accaduto e stranamente si dimostra gentilissimo augurandomi tanto bene, quindi scappo e vado a piangere dalla mia amica. Ritorno a casa ed è arrivata l’ora del “darmi da fare”. Anche se sono convinta che tutto si risolverà tranquillamente, ora sono in grado di vedere meglio le cose: adesso prenoto un volo per domani, così dopodomani sarò a Milano pronta per la mia nuota vita.
Con qualche filo di speranza in più vado nella vicina agenzia di viaggi. Dopo appena cinque minuti sono già fuori con una risposta che mi ronza nelle orecchie e altre lacrime pronte a venir fuori: “non ci sono voli, a causa della neve c’è l’autostrada bloccata, quindi gli aeroporti sono irraggiungibili”. Torno a casa ad annunciare le ultime news. Ricado nello stesso baratro di prima. Tra tutti i mezzi di trasporto possibili rimane solo il treno ma non posso partire domani, perché la Freccia del Sud, da non confondere con nessuna delle frecce attuali, mi porterebbe a Milano in “sole 24 ore”, e non sto parlando della testata giornalistica del più famoso quotidiano economico ma delle reali ore che impieghiamo noi del profondo sud a raggiungere il nord, noi che, parafrasando De Gregori, viviamo "nell'Africa d'Italia", e partendo domani non farei in tempo per firmare il contratto in tempo utile. Per cui, con un rapido scambio di sguardi tra me e i mie genitori nasce una unica soluzione: partire oggi, adesso.

Nel frattempo si sono fatte le 16.15, il treno parte alle 18.30. in fretta e furia ritorno in agenzia e compro il biglietto ferroviario. Rientro in casa e penso a preparare una valigia, non troppo piena, non troppo pesante, ma come si fa a trasferirsi per tutta la vita con una valigia non troppo piena e non troppo pesante?. Opto per un trolley piccolino e capiente, con le cose essenziali per sopravvivere la prima settimana. Il resto si vedrà.
E in questo tempo che rimane devo anche pensare a come salutare i miei genitori. Lacrime, abbracci, singhiozzi quelli di mia madre mentre i miei sono magoni che devo nascondere, lacrime alle quali non posso permettere che escano perché non devo lasciare loro come mia ultima impressione l’idea di una figlia che piange. Non sono una madre ma credo che a nessun genitore piaccia vedere un figlio piangere.

A distanza di sei anni esatti non posso non ricordare l’ansia, il buco allo stomaco, il buio su ciò che mi aspettava ma che mi costringeva comunque a dover andare avanti, perché indietro non potevo, e forse con tutta me stessa, non volevo andare. Alla fine partii senza nemmeno poter salutare gli amici più intimi, e, preso quel treno, mi resi conto che non sapevo ancora dove avrei dormito la sera successiva. Dalle mie parti si dice che “chi ha amici è fuori dai guai” per cui incontrai i miei due angeli, coloro che battezzai come i miei fratelli, due ventenni che mi fecero ritornare ragazzina. A loro devo molto e mi mancano.

Viaggiai per tutto il 27 gennaio, giorno della memoria. Fuori la neve, io in treno, umore bassissimo, destinazione sconosciuta, futuro incerto e tutto il mio mondo lontano da dove ero adesso, da dove sarei andata e chissà come e quando lo avrei rivisto. Giuro che mi rallegrava solo la consapevolezza dell'assenza dei campi di concentramento. Vista la neve mi vestii con colbacco e montone lungo fino ai piedi. Giunta alla stazione di Milano, dove peraltro non aveva nevicato, mi sentii come Totò al suo arrivo a Milano: mi mancavano le galline in mano e tutto sarebbe stato uguale, anche lo stordimento della grande città, dove non riuscii a distinguere la M della metro dalla M del McDonald. Ma dovevo farcela, avevo chiuso in un piccolo trolley i miei 30 anni e non potevo tornare indietro. Ed eccomi qui.

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