domenica 28 aprile 2013

Aristomanu



ZiaManu: Marghina mi dici come si chiamano gli Aristogatti?

Marghina: (indicandoli da sinistra verso destra) Memeo, Dutessa, Bisè, Matisse, Ziamanù.


the show must go on

Chi non conosce Marina Abramović? Artista contemporanea serba che non ha mai avuto paura di vivere l’arte sul suo corpo, regalando la stessa emozione al suo pubblico.
<Nel 1976 Marina Abramović lascia la Jugoslavia per trasferirsi ad Amsterdam. Nello stesso anno inizia la collaborazione e la relazione con Ulay, artista tedesco, nato tra l'altro nel suo stesso giorno. I due termineranno il loro rapporto dodici anni dopo, nel 1989, con una camminata lungo la Grande Muraglia Cinese: Marina decide di partire dal lato orientale della muraglia sulle sponde del Mar Giallo, mentre Ulay dalla periferia sud occidentale del deserto del Gobi. I due cammineranno novanta giorni per poi incontrarsi a metà strada dopo aver percorso entrambi duemila e cinquecento chilometri e dirsi addio> (Wikipedia)
Da allora, Ulay e Marina Abramović non hanno mai più lavorato insieme.
Nel 2010, 23 anni più tardi, durante l'importante retrospettiva dedicata a Marina Abramović dal MoMa, dal titolo The Artist is Present, l'artista rimane seduta immobile su una sedia per sette ore ogni giorno, per tutta la durata della retrospettiva, dal 14 marzo al 31 maggio, guardando negli occhi senza parlare chiunque volesse sedersi davanti a lei e…il primo giorno riceve una visita inaspettata: Ulay arrivò senza che lei ne fosse a conoscenza.


 
Da sempre ritengo che il linguaggio del corpo sia molto più importante, nonché più diretto, del linguaggio parlato. Osservo molto le persone e, benché la mia memoria negli ultimi anni mi abbia abbandonato, della gente che incrocio per la mia strada dimentico i nomi, dimentico il luogo e il periodo dell’incontro ma ciò che colpisce la mia mente no. Non dimentico i gesti, i dettagli, gli odori, i colori che portano dentro e fuori, insomma tutto ciò che colpisce i miei sensi. Il salvataggio dati è istintivo, non sono io a discriminare ma i file si salvano automaticamente in cartelle che magari rimangono nascoste alla mia memoria di lavoro ma riemergono quando meno me lo aspetto. Come in un déjà vu. Non a caso ho voluto studiare la LIS e rimango affascinata da due sordi che parlano. Non mi fermo a osservarli per pura e sterile curiosità, ma per il fascino che le loro mani e i loro busti emanano, per la cura e la leggiadria dei loro gesti, perché è tra le lingue forse la più sincera.

Marina è seduta, chiude gli occhi per riaprirli quando ha la certezza che una persona del pubblico si sia seduta di fronte a lei. È vestita di rosso, un lungo vestito rosso sangue e su quel vestito cadono i suoi lunghi capelli neri. Lui, casualmente, è vestito di nero ma dalla giacca emerge il risvolto del gilet di colore rosso. Marina apre gli occhi: si vede subito il suo sorriso: sembra un sorriso che viene fuori di getto, spontaneamente, come quello che viene fuori quando qualcuno ti sferra improvvisamente un pugno allo stomaco. Non è un sorriso ma una smorfia che esprime gioia ma anche rimpianto, dolore, rabbia, e sicuramente sorpresa, una sorpresa inaspettata e forse mai nemmeno immaginata. I suoi occhi non riescono a trattenere calde lacrime che iniziano a scorrere velocemente e la mente frulla ricordi su ricordi. Lui sospira, i suoi occhi capiscono, apprezzano, sono consapevoli e complici e non piangono, almeno esternamente. Sono occhi assorbenti i suoi, si colmano di liquido che non cola, riescono ad assorbire le lacrime e non farle fuoriuscire. Poi lei non si trattiene e pretende una stretta di mano. Ancora, per un’ultima volta, vuole un contatto fisico dal quale si distacca con dolore, con lentezza. Una volta andato via Ulay, Marina si copre il viso con le mani per asciugare le lacrime e non per vergogna, una donna come Marina non mostra vergogna. Certo a volte è molto più facile mostrarsi nudi davanti a milioni di persone con la scusa di una performance che mostrare la propria anima. L’incontro inaspettato con una persona che ha segnato la tua vita mette a nudo la tua anima di fronte al mondo. Osservate gli occhi di Marina quando si aprono di fronte alla persona che siederà dopo Ulay. Sperano di rivederlo e, quando si riaprono, ci vorranno diversi sospiri per tranquillizzarla e fare in modo che lo spettacolo possa continuare. Tutti ritornano prima o poi!


venerdì 26 aprile 2013

Atlantide




Lui adesso vive ad Atlantide con un cappello pieno di ricordi,
ha la faccia di uno che ha capito e anche un principio di tristezza in fondo all'anima,
nasconde sotto il letto barattoli di birra disperata e a volte ritiene di essere un eroe.

Lui adesso vive in California da sette anni sotto una veranda ad aspettare le nuvole,
è diventato un grosso suonatore di chitarre e stravede per una donna chiamata Lisa,
quando le dice “tu sei quella con cui vivere” gli si forma una ruga sulla guancia sinistra.

Lui adesso vive nel terzo raggio dove ha imparato a non fare più domande del tipo
“conoscete per caso una ragazza di Roma la cui faccia ricorda il crollo di una diga?
io la incontrai un giorno ed imparai il suo nome ma mi portò lontano il vizio dell'amore.”

E così pensava l'uomo di passaggio mentre volava alto nel cielo di Napoli
“rubatele pure i soldi, rubatele anche i ricordi ma lasciatele sempre la sua dolce curiosità,
ditele che l'ho perduta quando l'ho capita, ditele che la perdono per averla tradita.”


Francesco De Gregori, Atlantide, Bufalo Bill, 1976.


giovedì 25 aprile 2013

otto regole da Dio


1.      Prima di ogni altra cosa abbi cura di te stessa.


2.      Vivi nel presente, perché ogni istante è prezioso e non può essere sprecato.


3.      Non costruire muri, perché sono pericolosi. Impara a oltrepassarli.


4.      Non sai che le coincidenze non esistono?
Tutto ciò che succede, per quanto insignificante possa apparire, fa parte del Flusso Universale.

5.      Non scusarti mai per essere quella che sei, e per rivelare ciò che provi veramente.

6.      L'amore, il vero amore, non fa soffrire.

7.      Non ascoltare il tuo ego. Sii spontanea. E prova a vedere cosa succede.

8.      Lascia scorrere il Flusso Universale. Quando qualcuno ti dà qualcosa, ricevere è un atto di generosità. Perché nell'atto stesso di dare si riceve qualcosa.

Joan Brady, Dio su una Harley

mercoledì 24 aprile 2013

sempre e per sempre

 
 
Questo blog è nato per le mie nipotine. Volevo creare qualcosa che rimanesse, che facesse loro conoscere Ziamanu, nel caso in cui non mi potessi far conoscere dal vivo.
L’idea iniziale era quella di condividere i miei lavori di cucito creativo ma poi le situazioni che si sono create e avvicendate hanno fatto sì che io scrivessi anche di altro.
Quella che posto adesso è una canzone del mio migliore amico e guida, Francesco De Gregori. Sono stata pochissimi giorni fa a un suo concerto e, come fa da tanti anni ormai, mi ha regalato grandi emozioni sia con le nuove canzoni che con quelle storiche.
Questa canzone la dedico alle mie nipoti ma anche a tutte le persone che amo e che ho amato nella mia vita. Non sono tante ma non sono nemmeno poche. Sono fiera di aver conosciuto ognuno di essi e averlo amato e accettato per ciò che si è mostrata ai miei occhi. Non so quanto di questo amore mi sia tornato indietro e quanto ancora dovrò aspettermi ma non è un problema mio. Io per vivere ho bisogno di amare e amo lo stesso incondizionatamente, non ho paura né vergogna. Non voglio una vita sterile, e proprio per questo devo donare me stessa, la mia anima, i miei occhi, il mio cuore, le mie mani. Per la gente che amo ci sarò sempre.
 
Pioggia e sole cambiano la faccia alle persone
Fanno il diavolo a quattro nel cuore e passano e tornano e non la smettono mai
Sempre e per sempre tu ricordati dovunque sei, se mi cercherai
Sempre e per sempre dalla stessa parte mi troverai.
Ho visto gente andare, perdersi e tornare e perdersi ancora e tendere la mano a mani vuote
E con le stesse scarpe camminare per diverse strade o con diverse scarpe su una strada sola
Tu non credere se qualcuno ti dirà che non sono più lo stesso ormai
Pioggia e sole abbaiano e mordono ma lasciano, lasciano il tempo che trovano
E il vero amore può nascondersi, confondersi ma non può perdersi mai,
Sempre e per sempre dalla stessa parte mi troverai.
Francesco De Gregori, Sempre e per sempre, Amore nel pomeriggio, 2001.

martedì 23 aprile 2013

Compagno di sbronze



Non potevo scegliere un Compagno di sbronze migliore di lui. Nonostante avesse scritto un grosso Taccuino di un vecchio porco devo ammettere che è stato un Factotum d'eccellenza.
Mangiando un Panino al prosciutto seduto al Post Office, osservava le Donne: le gustava, le sorseggiava e le amava al punto da far loro le solite Confessioni di un codardo. La sua donna, ingelosita, gli urlava contro "Tutti gli stronzi a me". E le sue Urla dal balcone arrivavano fino all'ippodrono dove, con sigaretta e birra, Hank puntava su Un cavallo da 340 dollari e una puttana da 100. L'ammaliava, la seduceva per poi abbandonarla alla sua sciatta vita, come in un Pulp, una Storia del XX secolo. Per conquistare le donne mostrava loro una Svastica, tatuata A sud di nessun nord, in quel punto preciso dove arrivano le note di una Musica per organi caldi. "Hei Kafka, Niente canzoni d'amore oggi?" gli chiedeva L'ubriacone. "No, non oggi. Scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze" rispondeva serio.
Amava scrivere Storie di ordinaria follia, e Azzeccare i cavalli vincenti all'ippodromo, dopo aver fatto la sua solita spesa: Birra, fagioli, creckers e sigarette, specie se Il capitano è fuori a pranzo. Ma quali sono le vere Confessioni di un uomo abbastanza folle da vivere con le bestie? Beh, Shakespeare non l'ha mai fatto ma..."Quello che mi importa è grattarmi sotto le ascelle."

Sono io, Sono me




L’uomo che amava le donne non c’è più, è andato, è sparito, va e viene come un tram all’ora di punta, entra ed esce dalla tua vita come se avessi dimenticato la porta aperta o semplicemente lui ha scardinato la serratura e tu non riesci più a chiuderla per bene a doppia mandata. Nella furia di entrare e uscire non ha prestato attenzione e ha lasciato il suo disordine: piatti sporchi sul letto, briciole, bicchieri per terra unti di vino rosso, uno spazzolino da denti usato una sera e via, un film le cui immagini in bianco e nero si susseguono come in un “miracolo”. Ai tempi si pensava che star bene insieme fosse anche quello, un letto cosparso di briciole e disordine il tutto sotto le note di una brutta musica. Nessuno gli aveva chiesto altro, non volevi altro.
Nella ricerca dell’altra parte della mia mela, non ho mai cercato la bellezza fisica prendendola come primo termine di paragone. Di quella mela ho sempre cercato la sostanza, il nocciolo, e anche quando la mela si è rivelata in parte bacata, per cause che la vita di porta a vivere, mi sono sobbarcata anche il peso, o mi sono sentita in dovere, di provare a togliere la parte marcia, seppur non mi competesse, attraverso metodi “naturali” cioè senza forzature, senza interventi invasivi, senza lasciare segni né ferite ma attraverso i sentimenti, le attenzioni, le cure, la spartizione del dolore, il tutto con il consenso dell’altro. Non mi sarei mai sognata di entrare nelle vite altrui con le scarpe sporche di fango. Sono sempre entrata in punta di piedi.
Parlando con donne un po’ più grandi di me e quindi con più esperienza, (esperienti non esperte, l’esperienza è un termine che non sempre è sinonimo di saggezza, sapienza e certezza che le cose vadano in un certo modo, forse è così solo quando parli coi nonni) ho sempre sentito parlare del fatto che per avere un uomo ai tuoi piedi lo si debba trattar male.
Chi mi conosce sa che non è nella mia natura classificare gli uomini tutti in una stessa categoria, sarà perché mi darebbe molto fastidio se un uomo classificasse me nella categoria delle “donne” senza vedere oltre e altro, senza vedere e capire ciò che sono realmente. Sì sono donna ma non mi sento uguale a nessun’altra donna. Sono io, sono me. Sono un essere unico e ho faticato per esserlo. Ho preso la vita a morsi sin da bambina e non ho ancora smesso. Sono caduta tante volte ma ho sempre usato delle garze speciali, talmente spesse che hanno fatto sì che le ferite si rimarginassero o quantomeno che non sanguinassero più. Il dolore rimane ma il sangue non cola e non sporca la vita degli altri, lo spazio degli altri.
All’interno del mio mondo, molto aperto alle esperienze, ai viaggi, alla vita comune, alla triangolazione dei punti di vista, al gioco, alla creatività, un uomo fa fatica a vivere. Non so perché, non l’ho mai capito.
Alcuni sostengono che sia paura. Ma paura de che? Come può un uomo, superati gli anta, avere o provare paura e definirsi uomo?
Altri sostengono invece che appunto io non sia stata abbastanza stronza.
Ho conosciuto una donna che ha sposato diversi uomini, tutti rigorosamente ricchi, dai quali ha ricevuto in dono l’impossibile, trattandoli semplicemente come da manuale “come addestrare il tuo cane”. Non è uno scherzo: leggeva questo manuale per addestrare il proprio cane e faceva valere le stesse regole con gli uomini. Con lei ha funzionato.
Io, dopo diverse esperienze, non mi chiedo più dove abbia sbagliato, non mi condanno per non aver letto nessun tipo di manuale ma mi chiedo cosa realmente vogliano gli uomini e se forse una colpa devo per forza addossarmi non è quella di essere incapace ma quella di non volermi abbassare a usare certi trattamenti nei confronti dell’altro che però a quanto pare, e mi convinco sempre di più, vuole essere trattato proprio così.
Io penso che…
Se volessi un cane andrei nel più vicino canile e non lascerei entrare in casa un bipede per poi fargli fare la fine di quadrupede con tanto di guinzaglio.
Se volessi un uomo che appare e scompare andrei al circo e farei invaghire di me il mago di turno, sarebbe più semplice e mi divertirei pure.
Se volessi un culturista andrei nella sua palestra non farei di me la sua palestra.
Se volessi un uomo che stia con due piedi in una scarpa sostituirei il cane con la piovra.
Se volessi partecipare al gioco delle tre carte basterebbe che andassi in metropolitana. Anche lì ci sono uomini che lo fanno realmente e al massimo perderei dei soldi ma non la dignità.
Io non cerco l’uomo, cerco un uomo.
Ci sarebbero milioni di cose da elencare ma non credo sia possibile definire le qualità che dovrebbe avere un uomo perché per ogni donna le qualità cambiano. Un uomo ritenuto giusto per me potrebbe essere sbagliato per un’altra donna, ma credo che queste appena elencate siano delle semplici regole di convivenza civile in un rapporto che possa definirsi tale, insomma non mi pare di chiedere la luna.
Quindi cosa vuole l’uomo? Come vuole essere trattato? Purtroppo qui non posso non richiamare la categoria, non me ne voglia nessuno. Cresce con un ego smisurato ma limitato al rapporto con la madre per cui la propria autostima non si forma in maniera solida. Vive in continua lotta col sesso femminile, dal quale è venuto fuori ma al quale non somiglia affatto, deve dimostrare qualcosa a qualcuno e se a una certa età non può più farlo con la mamma lo farà con un’altra donna, “Tanto sono tutte uguali”.
Per farsi spazio, per ottenere un posto al sole, calpesta tutto ciò che trova davanti senza fare differenza tra platino e ferro vecchio. Anche quelli “Sono tutti metalli”.
La propria autostima la forgia attraverso i letti i cui dorme. Un letto equivale a una tacca sul muro. Anche lì che ci siano le pulci o le lenzuola di seta cosa importa?
Per cui l’uomo è tronfio quando è lui a decidere cosa fare anche se poi la donna chiede il vino più costoso e la suite imperiale. E sappiamo tutti che una donna è capace, se vuole, di far sì che appaghi i suoi desideri a caro prezzo.
Io credo che ogni cosa sia a sé, mi illudo che gli uomini siano tutti diversi tra loro per cui vadano trattati da persone singole né da animali né da categoria. Non posso e non voglio credere che gli uomini vogliano essere trattati come cani, per quanto esso sia il miglior amico dell’umano, che accettino di essere usati, sfruttati e sventolati come trofei in una gara dove vince chi l’ha preso per primo. Purtroppo non finirò mai di stupirmi. L’esperienza insegna che è così e la cosa mi disgusta, mi lascia senza parole né pensieri sarà perché ho sempre immaginato una relazione come una cosa diversa: scambio di idee su libri, musica, film, condivisione di interessi, spazi condivisi e rispettati, il tutto da fare anche sul divano di casa a costo zero.
Io non ho mai preteso che il mio uomo pagasse per me: sono una donna in gamba e se credo alla parità dei diritti in campo politico e sociale, devo credere che la stessa parità sia applicabile anche in campo economico. Sono intelligente, ho conseguito una laurea con lode e mi sono fatta strada completamente da sola. Sono fiera di questo ma riconosco che l’uomo vuole altro, forse perché altrimenti perderebbe il potere mentre trattare le donne da “mantenute” gli solleva l’ego.
Sì perché è di questo che si tratta: la più sciatta donna è una spanna avanti l’uomo. Le donne sono esseri diversi dagli uomini, vedono oltre (chi più chi meno), guardano avanti, forse senza nemmeno godersi il presente ma lo fanno per istinto di sopravvivenza. Guardano le cose da più punti di vista e capiscono immediatamente la ragione per cui una cosa non può che essere così. Riescono a cadere e non si feriscono abbastanza al punto di non rialzarsi più. Non possono permetterselo, non possono continuare a sanguinare mentre devono mantenere, curare, educare e integrare in una società un figlio.
Quindi Caro Uomo, prima di scardinare una serratura chiarisciti le idee. Se devi affilarti le unghie non farlo sulla mia pelle. Io non mi abbasso a metterti il guinzaglio, nè a leggere un manuale pur di averti attorno. Vivo meglio da sola, senza anime randagie intorno. Io ti ho solo rispettato, tu puoi sempre imparare a farlo, non è mai troppo tardi. Si fa presto a utilizzare le proprie ferite come alibi per fare il doppio gioco ma questo, oltre che infantile, è un comportamento che porta solo del male a sé stessi prima che agli altri. Un uomo deve alzarsi e reagire, proprio come una donna, se proprio non riesce a far di meglio.

lunedì 22 aprile 2013

Salvami

Salvami, mi fa male quando è sincero
Salvami, dimmi almeno che non è vero
Parlami, Tu sai la verità
 

domenica 21 aprile 2013

Fai bei sogni




“Se un sogno è il tuo sogno, quello per cui sei venuto al mondo, puoi passare una vita a nasconderlo dietro una nuvola di scetticismo ma non potrai mai liberartene.”

Ho visto in TV un’intervista al giornalista Massimo Gramellini. Parla del suo libro Fai bei sogni, edito da Longanesi. Non l’ho ancora letto ma credo di farlo al più presto. Finora avevo visto Gramellini come un giornalista umorista ma mai mi sarei aspettata di sentirlo parlare di amore e di sentimenti nella loro totale profondità.
Le sue riflessioni mi hanno portato un po’ indietro nel mio vissuto, nelle mie esperienze ma, come sempre, mi hanno posto al di là dei fatti.
Gramellini nel suo libro parla della scomparsa della madre che è avvenuta quando lui aveva solo nove anni e della scoperta della verità, relativa a questa morte, avvenuta 40 anni dopo. Pochi mesi dopo la morte della madre, mesi in cui rifiutava l’idea ed era convinto che la madre sarebbe tornata, capisce di essere rimasto orfano dalle dure parole della tata alla quale aveva chiesto un bacio: “bambino, non so amare perché nessuno mi ha amata e non posso darti un bacio”. Quaranta anni dopo scoprirà la verità sulla morte in maniera “ironica”, come la definisce lui, leggendo un articolo nell’archivio del suo giornale.
“Il dolore e la vita vanno prese con ironia” - dice -. “Anche se prima l’ironia serve da scudo per difenderci dal mondo esterno che non capisce e non può capire il nostro dolore. Le onde si prendono meglio se le fendi di taglio. Anche la vita andrebbe presa con ironia e leggerezza per non prendersi troppo sul serio.”
Il dolore provato da lui bambino alla notizia della morte della madre lo ha reso un “handicappato emotivo”: scopre in un solo istante che per tutta la vita non avrà mai più l’amore della madre, che in qualsiasi altra donna non troverà mai quel tipo di affetto. L’unica cosa che ha dovuto fare per sopravvivere è stata quella di vedere in quell’handicap un punto di forza, un potenziale che lo stesso dolore gli ha fatto risvegliare facendogli riscoprire sé stesso.
Quando si vive un dramma la cosa più facile è tagliare i ponti col dramma stesso, tagliare questa corda che ci lega al dolore perché siamo convinti che solo così il dolore non potrà mai più farci del male. Non ci rendiamo conto che la stessa corda è legata a filo doppio per cui oltre al dolore, a quella corda è legato l’amore e se noi la tagliamo non facciamo altro che allontanare sì il dolore ma allontanare anche l’amore. Non sentiamo più niente, ci sembra quasi di star bene, non sentiamo dolore ma non sentiamo amore, non amiamo. Allora qual è il gesto più coraggioso che possiamo fare? Riattaccare la corda accettando il dolore per l’amore. “Quando un essere umano fa questa cosa è un uomo adulto.” La cosa più bella è che Gramellini ha riattaccato questa corda grazie a sua moglie, un altro esempio di quanto una donna sia in grado di fare e sia importante per un uomo.
Quando il dramma lo si vive da bambini ci si pone in continuo credito col mondo, cioè ci si aspetta che il mondo ci voglia bene perché a noi è mancata qualcosa, perché non ci è stato dato abbastanza amore, il mondo ci deve risarcire di ciò che non abbiamo avuto. Ma la vera scoperta dell’uomo che vuole esser chiamato tale è che per ricevere amore non dobbiamo fare altro che amare. Solo amando e donandoci all’altro possiamo ricevere quel credito tanto desiderato. Non si può pretendere di essere amati per partito preso senza dare niente. Proprio nel gesto di dare si riceve.
“Quando ci si limita ad essere amati si pensa che quella sia la felicità. Alla fine ci si rende conto che non si è felici perché la vera felicità non sta nell’essere amati ma nell’amore che si da, che si prova, che si esprime. Quando si riesce a tirar fuori da sé l’amore si trova la serenità interiore ma finché si sta ad aspettare l’amore degli altri ci si condanna a una infelicità perenne.”
L’uomo oggi non parla di sentimenti ma di emozioni. Le emozioni sono quelle che ti colpiscono ma rimangono superficiali, i sentimenti sono quelli che entrano lentamente dentro di te e sono le uniche cose che contano nella vita. Il dolore ci porta a non sapere, è la via più semplice come la fuga, ma se rimaniamo sempre estranei alla verità non guariamo mai dal nostro dolore. Solo quando conosci la verità diventi veramente adulto.
L’uomo dovrebbe ascoltare di più “La voce degli dei”. È un concetto di Jung e non è altro che l’intuizione. Siamo conviti che la vita sia fatta solo di processi razionali, che sia il cervello a fare tutto ma non è così. Il cervello è molto limitato, nel cervello è depositato l’intelletto ma non l’intuizione. La voce degli dei è quella voce che sa cosa è bene per noi, che ci dice cosa fare in ogni situazione, che ci dice sempre la verità, che non ti tradirà mai. Il problema è che non l’ascoltiamo quasi mai perché siamo sconvolti e distratti dai rumori. Se ci mettessimo in completo silenzio e buio sentiremmo quella voce che ci guida, che ci dice cosa fare, solo per il nostro bene.

 

domenica 14 aprile 2013

Chissà dove sei




Chissà dove sei, perduto nella notte,

col tuo trucco infame e la tua giacca da bandito.

Io ti ho aspettato all'ombra dei tuoi 'per come'

col mio viso angelico percosso dai fatti.

Chissà dove sei, perduto nei segni

con la tua sigaretta come una matita

e le tue speranze di vittoria.

Io ti ho accettato come una bella calligrafia,

un biglietto da visita e due occhi diversi.

Può accadere di tutto,

puoi anche conquistare vari uomini bruni e misurarne l'aspetto

ma il mio indirizzo è "Via del sopracciglio destro"

con rispetto parlando, e altre parti, altre parti di me.

 

Francesco de Gregori, Chissà dove sei, Francesco De Gregori, 1974

venerdì 12 aprile 2013

la rana e lo scorpione

 
 
Una rana stava serenamente sguazzando in un fiume quando ad una sponda si avvicinò uno scorpione. "Devo passare dall'altra parte" disse "ma non so come fare, io non so nuotare e se provo affogherò. Tu potresti aiutarmi trasportandomi sul tuo dorso, te ne sarei molto grato".
La rana perplessa rispose: "Ma se io ti lascio salire sul mio dorso tu potresti pungermi ed uccidermi!".
Lo scorpione rassicurò la rana: "Non ti preoccupare, perché dovrei farlo, se ti pungessi morirei anch'io perché affogheremmo entrambi nel fondo".
La rana si sentì rassicurata dalle spiegazioni dello scorpione e lo fece salire. Quando furono a metà del fiume, lo scorpione punse la rana. La rana stupita dal gesto dello scorpione mentre stava affondando insieme a lui trovò la forza di chiedergli: "Ma perchè l'hai fatto, adesso moriremo entrambi?" Lo scorpione rispose "Non ho potuto farne a meno, questa è la mia natura".

domenica 7 aprile 2013

come mi innamorai di Alekos e Oriana imparando ad amare "Un Uomo"

[...] Paradossalmente non ero innamorata di te. Non lo ero mai stata, nemmeno durante i sette giorni di felicità o nel periodo della casa nel bosco, perlomeno nel senso che di solito si dà a questo termine. Parlo del desiderio fisico che annebbia la vista e interrompe il respiro al solo guardare la creatura amata, del brivido che ti intirizzisce e ti scioglie al solo sfiorarle una mano, una guancia, sicchè tutto in lei diventa unico e insostituibile, perfino l’odore del suo fiato, il sudore della sua pelle, i suoi stessi difetti che anziché difetti ti sembrano qualità deliziose: hai bisogno di lei come dell’aria, dell’acqua, del cibo, e in tale schiavitù muori di mille morti ma sempre per resuscitare, esserle schiavo di nuovo. Questi sintomi io li conoscevo, ma in coscienza non potevo dirmi d’averli avvertiti in nessun momento per te. As esempio, il tuo corpo non mi attraeva, non capivo le donne che lo giudicavano bello e se ne invaghivano perdutamente tradendo il marito, umiliandosi pur d’essere scaraventate cinque minuti contro un muro o su un letto, poter raccontare agli altri o a sé stesse d’averti toccato; fin dal primo istante ti avevo giudicato bruttino e continuavo a giudicarti tale. Quegli occhietti piccoli, diversi tra loro nel taglio e nella collocazione, uno più alto e uno più basso, uno più chiuso e uno più aperto, quel naso spampanato, disossato, quel mento breve e dispettoso, quelle guancie che si riempivano appena ingrassavi un po’. Quei capelli grossi e untuosi che non pettinavi mai, quel corpo tarchiato, spalle troppo tonde, braccia troppo corte, mani troppo tozze, dale unghie strappate anziché tagliate. Avevi imparato a strapparle in prigione dove non avevi le forbici, e continuavi a strapparle malgrado le mie proteste d’orrore. E poi quante cose mi irritavano di te! Il tuo modo di mangiare, per dirne una: così maleducato, ingordo. Ficcavi in bocca certi bocconi che nemmeno un cavallo sarebbe riuscito a ingoiarli. Il tuo modo di fare il bagno, per dirne un’altra. Fare il bagno per te significava coccolarti nell’acqua come un’anatra, sonnecchiarci ore e ore senza usare il sapone, uscirne di colpo per infilarti bagnato nel letto, infradiciarmi tutta, strillare contento ho-freddo, ho-freddo! E il tuo vitalismo esagerato, la tua sessualità golosa, ringhiosa, che quando aggrediva coi suoi slanci felini sollevava in me un impulso alla fuga; bisognava controllarsi, mentire, perché tu non capissi che la partecipazione era un atto cerebrale , sostenuto da una tenerezza misteriosa, lacerante e struggente, un trasporto che nasceva da non so cosa ma non certo dai sensi. Non ero venuta a te succhiata da un richiamo dei sensi. Ricordavo bene l’angoscia che avevo provato a udirti camminare su e giù dinanzi al vetro smerigliato della porta, in dubbio se entrare o no, ricordavo bene il gelo che mi aveva intirizzito a intravedere le tue dita sulla maniglia, e il sollievo che mi aveva alleggerito quando le dita si erano ritratte. Possibile che fosse dovuto solo al presentimento di una tragedia a venire? Ricordavo altrettanto bene l’inquietudine che mi bucava a sera i cui ero tornata per trovarti in ospedale, il segreto sgomento all’idea che toccasse a me riempire un vuoto di cinque anni, subire una voracità a lungo inappagata. No, neanche sull’incanto della prima notte i sensi avevano avuto un’influenza, sarebbe stato disonesto dire che la tua passione aveva suscitato la mia, e anche dopo era stato così: negli abbracci forsennati o dolcissimi non era il tuo corpo che cercavo bensì la tua anima, i tuoi pensieri, i tuoi sentimenti, i tuoi sogni, le tue poesie. E forse è vero che quasi mai un amore ha per oggetto un corpo, spesso si sceglie o si accetta una persona per la malìa inesplicabile con la quale essa ci investe, o per ciò che essa rappresenta ai nostri occhi, alle nostra convinzioni, alla nostra morale; però il veicolo di un rapporto amoroso rimane il corpo e, se quello non ci seduce, qualcos’altro deve pur sedurti. Il carattere, ad esempio, il modo di vivere o di comportarsi. E col tempo avevo scoperto che neanche il tuo carattere mi piaceva molto: con le sue smoderatezze, le sue ferocie, le sue sfuriate cattive e senza senso, le sue ebrezze del primo stadio, secondo stadio, terzo stadio, le sue durezze  di roccia, le sue chiusure da ostrica. Più tentavo di aprire l’ostrica per estrarne la perla più essa mi resisteva colando un liquido nero, più scavavo la roccia in cerca di rubini e smeraldi più trovavo sassi e carbone. Il tuo bosco era pieno di sterpi, di spine, appena vi coglievo un fiore mi graffiavo, mi insanguinavo. E l’arroganza grazie a cui pareva che tutto ti fosse permesso, la faciloneria con la quale liquidavi situazioni e problemi, le contraddizioni in cui precipitavi. Tutte tare per me deplorevoli. Ma allora perché avevo avuto quell’impulso di correrti dietro, abbracciarti, sentire i tuoi baffi contro la mia guancia, perché ora sentivo il bisogno di raschiarmi la gola per ricacciare indietro le lacrime?
Eppure non ero gelosa di te, non lo ero mai stata. Nemmeno all’inizio quando m’ero accorta che accendere desideri solleticava la tua vanità, nemmeno in seguito quando i tuoi riti dionisiaci erano esplosi. Parlo della gelosia che svuota le vene all’idea che l’essere amato penetri un corpo altrui, la gelosia che piega le gambe, toglie il sonno, distrugge il fegato, arrovella i pensieri, la gelosia che avvelena l’intelligenza con interrogativi, sospetti, paure e mortifica la dignità con indagini, lamenti, tranelli facendoti sentire derubato, ridicolo, trasformandoti in poliziotto inquisitore, carceriere dell’essere amato. Forse per cerebralismo,coerenza al principio che i rapporti d’amore debbano essere reinventati e anzitutto scrostati dalle scorie, dei fardelli che a lungo andare li rendono soffocanti, mero sempre proibita di provare simili sofferenze per te. Saperti desiderato anzi mi lusingava, vederti aperto alle tentazioni mi divertiva, a volte le sue cose aizzavano addirittura il gusto di disputarti a un’ingordigia che io stessa nutrivo essendoti compagna. Solo negli ultimi tempi i tuoi eccessi mi avevano addolorato, e non per il fatto di sapermi sostituita un’ora o una notte bensì per il torto che facevi a te stesso esponendoti a pettegolezzi, accettando i costumi di una società che volevi cambiare, adeguandoti alle sozzure di una sottocultura dove il culto del fallo umilia l’intelligenza. Tuttavia neanche allora avevo ceduto all’indignazione che ammutolisce e spinge a chiuderci la porta alle spalle dopo aver lasciato le chiavi sul letto.
Forse non ero innamorata di te, o non volevo esserlo, forse non ero gelosa di te, o non volevo esserlo, forse m'ero detta un mucchio di verità e di menzogne, ma una cosa era certa: ti amavo come non avevo mai amato una creatura al mondo, come non avrei mai amato nessuno.
Una volta avevo scritto che l'amore non esiste, e se esiste è un imbroglio: che significa amare? Significava ciò che ora provavo a immaginarti impietrito, perdio, con lo sguardo di un cane preso a calci perché ha fatto pipì sul tappeto, perdio! Ti amavo, perdio. Ti amavo al punto da non sopportare l'idea di ferirti pur essendo ferita, di tradirti pur essendo tradita, e amandoti amavo i tuoi difetti, le tue colpe, i tuoi errori, le tue bugie, le tue bruttezze, le tue miserie, le tue volgarità, le tue contraddizioni, il tuo corpo con le sue spalle troppo tonde, le sue braccia troppo corte, le sue mani troppo tozze, le sue unghie strappate. E certo l'amore non ha per oggetto un corpo, però anche se eravamo separati da un oceano quel corpo io lo portavo a letto con me, nel ricordo lo abbracciavo come quando abitavamo la casa nel bosco, d'inverno, e la notte faceva freddo e ci scaldavamo così, la mia testa contro la tua testa, il mio ventre contro il tuo ventre, le gambe annodate, oppure quando stavamo distesi nella camera di via Kolokotroni l'estate, i pomeriggi erano afosi e ci scostavamo ridendo, via-roba-calda, ma c'era sempre un momento in cui i tuoi occhietti strani, uno più alto e uno più basso, uno più chiuso e uno più aperto, mi ubriacavano di dolcezza, sicchè mi chinavo a baciare le tue palpebre gonfie, mandorle di carne, accarezzare con la punta dell'indice il tuo naso buffo, i tuoi baffi spinosi, le tue labbra increspate da tante rughine, labbra di vecchio dicevi, e strisciandoti il dito sul mento poi sulla mascella poi sullo zigomo risalivo lentissimamente agli orecchi, perfetti questi, ben disegnati, e tu subivi felice che ti ammirassi almeno gli orecchi: "Che orecchi! Che orecchi!"
E forse il tuo carattere non mi piaceva, né il tuo modo di comportarti, però ti amavo di un amore più forte del desiderio, più cieco della gelosia: a tal punto implacabile, a tal punto inguaribile, che ormai non potevo più concepire la vita senza di te. Ne facevi parte quanto il mio respiro, le mie mani, il mio cervello, e rinunciare a te era rinunciare a me stessa, ai miei sogni che erano i tuoi sogni, alle tue illusioni che erano le mie illusioni, alle tue speranze che erano le mie speranze, alla vita!
E l'amore esisteva, non era un imbroglio, era piuttosto una malattia, e di tale malattia potevo elencare tutti i segni, i fenomeni. Se parlavo di te con gente che non ti conosceva o alla quale non interessavi, mi affannavo a spiegare quanto tu fossi straordinario e geniale e grande; se passavo dinanzi a un negozio di cravatte e camice mi fermavo d'istinto a cercare la cravatta che si sarebbe piaciuta, la camicia che sarebbe andata d'accordo con una certa giacca; se mangiavo in un ristorante sceglievo senza accorgermene i piatti che tu preferivi e non che preferivo io; se leggevo il giornale notavo sempre la notizia che a te avrebbe interessato di più, la ritagliavo e te la spedivo; se mi svegliavi nel cuor della notte con un desiderio o con una telefonata, mi fingevo più desta di un fringuello che canta al mattino.[...]
Ma un amore simile non era neanche una malattia, era un cancro! Un cancro. Come un cancro che a poco a poco invade gli organi col suo moltiplicarsi di cellule, il suo plasma vischioso di male, e più cresce più divieni cosciente del fatto che nessuna medicina può arrestarlo, nessun intervento chirurgico può asportarlo, forse sarebbe stato possibile quand'era un granellino di sabbia, un chicco di riso, una voce che grida egò s'agapò, un amplesso mentre il vento fruscia tra i rami d'olivo, ora invece non è possibile perchè ti ruba ogni tuo organo, ogni tessuto, ti divora al punto che non sei più te stessa ma un impasto fuso con lui, un unico magma che può disfarsi solo con la morte, la sua morte che sarebbe anche la tua morte, così tu mi avevi invaso e mi stavi divorando, ammazzando.
V'è una caratteristica lugubre negli ammalati di cancro: appena capiscono che esso ha vinto o sta per vincere, cessano di opporgli i farmaci, il bisturi, la volontà e si lasciano uccidere con sottomissione, senza maledirlo, neanche rimproverarlo del martirio che esige. Il-mio-male, lo chiamano con affettuosa indulgenza, quasi fosse un amico, un padrone, o un possesso di cui non possono fare a meno, e quel "mio" risuona a volte con accento soave: lo stesso che gorgogliava nella mia voce appena pronunciavo il tuo nome.
Ecco, a tale stadio ero giunta per non averti estirpato quando eri un granellino di sabbia, un chicco di riso, e sebbene l'istinto m'avesse avvertito che chiunque entrasse nella tua sfera perdeva la pace per sempre.
Eppure di occasioni per sfuggirti ne avevo avute [...] ma le avevo sempre respinte e così il cancro aveva proseguito il suo corso per dimostrarmi che amare significa soffrire, che l'unico modo per non soffrire è non amare, che nei casi in cui non puoi fare a meno di amare sei destinato a soccombere. In altre parole il mio problema era insolubile, la mia sopravvivenza impossibile, e la fuga non serviva a nulla.
A nulla? Alzai la testa. A qualcosa serviva: salvare la mia dignità. [...] Tanto rompere il cuore di una donna, squarciare il ventre di un’altra sono inezie di fronte alla Storia e alla Rivoluzione, no? Basta. Si ha un bel dire che la serenità addormenta, che la felicità rimbecillisce, che il soffrire invece sveglia e dà idee. Il soffrire paralizza, spenge l’intelligenza, uccide. E con te avevo sofferto veramente troppo. Salvo piccole oasi di gioia, brevi grandinate di allegria, la nostra unione era stata u fiume di angosce, pericoli, follie, nevropatie: stare con te era come stare in prima linea. Era un continuo piovere di razzi, granate, napalm, un perenne scavare trincee, andare in pattuglia su sentieri minati, lanciare attacchi, ferire e venir feriti, urlare, singhiozzare, chiama il barelliere, dammi il caricatore, comandante non ce la faccio più. Non si può stare al fronte in eterno, vivere in eterno sul dramma. Si finisce col perdere il senso della misura. [...] Capitava sì che l’immagine di te mi aggredisse ogni tanto, sollecitata da un nome o da un suono o da un cibo, addirittura da un’insegna al neon [...] ma a respingerla bastava il ricordo di quei due pugni nel polmone. Scottavano ancora, quanto bruciature di sigaretta. Capitava perfino che la vista dell’anello scambiato a Natale, ora tolto dall’anulare sinistro e riposto in un cassetto, provocasse un groppo alla gola; ma a raschiarlo via bastava un po’ di ragionamento; in un deserto dove ogni pianta è un miraggio, ogni filo di vento un’illusione, il deserto delle utopie, noi ci eravamo incontrati scordando di chiederci chi fossimo e dove volessimo andare; cani senza medaglia, ci eravamo presi per mano, e inciampando nelle dune di sabbia, cadendo, rialzandoci, inciampando di nuovo, ci eravamo fatti compagnia, legati dall’equivoco guinzaglio dell’amore. Ma ora il guinzaglio era rotto e guai a riannodarlo coi groppi alla gola; guai ad incrinare il mio equilibrio, il mio distacco. [...]

mercoledì 3 aprile 2013

Attori si nasce, comparse...pure


Quando una persona si presenta a te davanti a una finestra in una giornata di sole, difficilmente riesci a vederla. Sei abbagliata dalla luce e ti lasci guidare dal suo profilo, dai suoi movimenti, dalle sue parole, dai suoi gesti. Fatichi a guardare dalla sua parte ma ti accontenti di quel po’ che vedi. Dici che sono altre le cose che contano. La sua anima per esempio: per vedere la sua anima non serve la luce, non serve guardare. L'anima si assapora attraverso altri sensi. La gusti e la trovi sensibile al tatto, sottile, hai quasi paura di romperla. Te ne prendi cura e la custodisci nel tuo seno in modo che nemmeno un alito di vento possa screpolarla.
Poi arriva la notte e la finestra non è più illuminata. Oltre al profilo vedi anche i tratti più piccoli del volto, delle mani, e capisci che quella voce, quell’anima, appartengono a una persona che non conosci. La cosa peggiore è che sapevi già cosa ti sarebbe successo; ormai è un copione che volta dopo volta si ripete, cambiano solo le comparse.
Sì perché di comparse si tratta, non di attori. Gli attori sono capaci di recitare e lo fanno fino in fondo. Le comparse no, quelle imparano poche battute, recitandole nel peggiore dei modi e su tutti i palchi dei teatri che apriranno loro le porte.
Hanno la presunzione di salire sul palcoscenico della tua vita ma non hanno ancora imparato che ogni palcoscenico è a sé. Non si accorgono che sullo sfondo del tuo palcoscenico c’è una scenografia diversa, che tu stai recitando un copione di cui non conoscono le battute, che i ballerini di scena ballano su altre note finora mai ascoltate, che i costumi che indossi sono di diversa fattura e decorati con gemme preziose, che il pubblico che le sta a guardare è un altro, non è più quello del giorno prima.
Poi arriva il momento in cui da soli, senza nemmeno aspettare che si chiuda il sipario e finisca la recita, decidono di abbandonare la scena. Il sipario rimane aperto, il pubblico pagante è insoddisfatto e tu devi improvvisare per far sì che niente del lavoro che hai duramente fatto fino ad allora venga perduto o criticato.
La vita del protagonista è difficile ma guai a non essere protagonisti della propria vita. Chiunque sia la comparsa che si presenterà sul mio palcoscenico, non le permetterò che unga, strappi o cambi il copione della mia vita. Il pubblico sa discriminare un testo da una frase improvvisata a caso, e non servono costumi bardati di fiori per mascherarsi e apparire migliori di quelli che siamo. I fiori prima o poi appassiscono, le gemme brilleranno per sempre.